Assomac, un futuro ottimistico ma sul quale è necessario lavorare insieme.

A 40 anni dalla sua nascita, Assomac stila il nuovo “Rapporto del settore” che ha come focus l’evoluzione dei processi manufatturieri e le priorità dell’innovazione tra produttività, gestione e sostenibilità, e lo presenta ai suoi associati durante l’ultima assemblea annuale tenutasi a Milano lo scorso novembre

Nell’ultimo decennio, lo sviluppo di tecnologie innovative ha portato a processi di produzione più flessibili, efficienti dal punto di vista energetico e sostenibili dal punto di vista ambientale. La produzione, inoltre, si è evoluta grazie ai progressi nella catena di approvvigionamento, nelle economie, nelle esigenze dei consumatori e nella progettazione ingegneristica, diventando un processo ad alta intensità di capitale (anche umano) e automatizzazione. Anche l’innovazione dei dati e dei prodotti svolge un ruolo significativo nel settore. Ma, nell’era dell’industria e della produzione 4.0, la produzione moderna è ancora alle prese con i principi del taylorismo, che cercano di trovare un equilibrio tra uomo e macchina in termini di produttività ed economia di produzione. La produzione moderna è al centro dello sviluppo globale, dalle materie prime ai semilavorati e ai prodotti finiti, ma, ancora oggi, nonostante un numero crescente di innovazioni e tecnologie rivoluzionarie, alcune sfide fondamentali rimangono irrisolte. Sostenibilità, aumento dei costi energetici, difficoltà di approvvigionamento, individualizzazione, digitalizzazione e mancanza di personale qualificato sono solo alcuni dei fattori che ostacolano la crescita di un settore che rappresenta una eccellenza nel mondo. Come si legge nel rapporto, il 2021 è stato un anno positivo, vista la crescita media settoriale del fatturato che si è attestata intorno al 30% grazie a una forte ripresa delle vendite sul mercato interno e in quello estero. Ma cosa ci attende nel prossimo futuro? Ne abbiamo parlato con il Presidente dell’Associazione Nazionale dei Costruttori Italiani di Tecnologie per Calzature, Pelletteria e Conceria, Maria Vittoria Brustia, Il Direttore Roberto Vago e Agostino Apolito, Senior Manager, da poco entrato a far parte dello staff di Assomac.
Le sfide a cui il settore è sottoposto, sì, sono grandi, ma rappresentano al contempo anche una straordinaria opportunità che pone le basi per una efficace competitività sul mercato a lungo termine. Come si sta muovendo Assomac in questo senso?
Roberto Vago: “Sulla spinta molto forte della Presidenza, stiamo facendo diversi ragionamenti su come la nostra Associazione può evolvere, quali sono le nuove opportunità da cogliere, dove proporre la nostra offerta e, soprattutto, come intensificare l’attività di promozione delle nostre imprese a livello internazionale”.
Lo scenario mondiale è in profondo mutamento…
“Lo stesso sistema industriale sta cambiando a livello internazionale, lo stiamo dicendo già da un paio di anni. Oggi la domanda è: come, dove e con che formula ci presentiamo a questo nuovo mondo? Non avendo la sfera di cristallo dobbiamo basarci unicamente sui fatti. Prendiamo ad esempio il Vietnam: l’ultimo appuntamento fieristico che si è tenuto nel paese ha rappresentato un momento di verifica di una situazione più generalizzata, che è quella del Far East su cui noi e le nostre aziende hanno lavorato e investito per anni. La situazione oggi è talmente confusa che si rende necessaria l’esigenza di fare una nuova analisi politico-industriale di tutta l’area. In questo momento nessuno è in grado di scommettere una sola fiche su questi mercati. Porto ad esempio anche Hong Kong, considerato fino a poco tempo fa un vero e proprio baricentro: oggi Hong Kong non c’è più. Punto. Secondo la mia opinione, non tornerà più ad essere il riferimento che conoscevamo. La partita è effettivamente molto complessa, sia per questioni geopolitiche, sia per questioni di logica manifatturiera. La domanda che dobbiamo porci oggi è se la logica della mass manifacturing, quindi 20.000 paia di scarpe bianche tutti i giorni, 365 giorni all’anno, regge ancora. Oppure, come qualcuno ipotizza, siamo arrivati al punto in cui dobbiamo ripensare al modello produttivo in una small manufacturing ma diffusa a livello internazionale. La vera domanda è: spostiamo il prodotto o spostiamo il processo? Questo è il dilemma che ci troviamo a dover affrontare oggi. Sicuramente i dati dicono che i lotti di produzione diminuiscono in termini di quantitativi per lotto. Per mantenere gli stessi numeri ad aumentare è dunque la frequenza. Quindi vuol dire 2000 paia, non più 20.000, ma 2000 paia per dieci. Sono sempre 20.000 ma per realizzarle sono necessarie più macchine e, sicuramente, un’analisi del processo produttivo del tutto diversa. Questo è il primo grande tema su cui, secondo me, l’Italia può giocare una partita vincente perché noi arriviamo dalla logica del distretto industriale della piccola produzione e di quella customizzata. Credo fermamente che si possa prendere concretamente spunto da questa nostra grande eredità industriale”.
L’Italia è ancora l’unico paese ad avere una catena produttiva completa, che parte dall’animale sino ad arrivare alla scatola che contiene le scarpe. Dove risiede il problema allora?
“La logica di filiera completa rimane sicuramente una delle visioni che ci appartengono maggiormente. Io ritengo che, se vogliamo fare un passo avanti, e l’ho ripetuto anche a livello ministeriale, dobbiamo pensare ad una logica di integrazione dei processi più che non una logica di integrazione di prodotto. Questa, purtroppo, è una mancanza che ci portiamo dietro da anni”.
Perché è così difficile superare questo scoglio?
“Parliamo di resilienza, per esempio. Lo faccio raccontandovi un aneddoto. Per una delle mie attività precedenti sono entrato in contatto con un Istituto molto importante a Lecco, l’Istituto di Chimica della Materia Condensata e di Tecnologie per l’Energia, che studia le leghe a memoria di forma. Le leghe a memoria di forma sono leghe che a certe temperature assumono una forma specifica, mentre ad alte temperature cambiano la loro struttura e diventano libere. Quindi, per parafrasare il concetto della memoria di forma, potremmo dire che sostanzialmente è ricordare come si era. Ecco, ciò che mi spaventa molto è che la parola resilienza non sia sinonimo di adattamento ma di memoria di forma. Il vero rischio che stiamo correndo è che, passata questo periodo, tutti vogliano tornare a ciò che era prima. E quindi torniamo al concetto che le aziende si ristrutturano, sì, ma cercando di fare quello che facevano esattamente in passato, diciamo fino al 2019”.
Pensa che sia legato a un fattore prettamente generazionale oppure è un pensiero talmente radicato che è difficile poter pensare a una vera evoluzione del sistema industriale?
“Io credo che sia un concetto radicato. Le nuove generazioni possiedono sicuramente una visione più innovativa ma è il modello a non essere cambiato perché se così fosse non saremmo qui a parlare di processi integrati. E non solo nel nostro settore… La capacità di essere integratori di sistemi, cioè di offrire soluzioni chiavi in mano, è una cosa che va al di là del semplice mettere insieme una fila di macchine: vuol dire processo industriale, vuol dire prototipazione, vuol dire modello… E noi, se veramente volessimo, saremmo già in grado di farlo anche a livello territoriale”.
Manca la visione d’insieme e una vera capacità di fare sistema?
“Sì. Qualche incubatore che lo teorizza c’è. Il punto è che passare dal dire al fare non è automatico. Noi stiamo lavorando molto sull’interconnessione tra macchine, cioè su un linguaggio comune, una sorta di plug and play, nella catena di produzione. Proprio in questi mesi stiamo sviluppando un progetto con il Politecnico di Milano dedicato all’industria tessile che consenta di accedere a un nuovo livello di comunicazione fra le machine, un livello superiore fatto di digitalizzazione, informazione dati, tracciabilità, risparmio energetico, che ci consenta di fare un vero salto di qualità”.
Cosa vi chiedono i vostri associati oggi?
“Dal punto di vista associativo quello che ci chiedono di più e spiegare loro come si fa a intraprendere questo percorso. Sarebbe bello che un giorno arrivasse qualcuno a Vigevano, o in qualsiasi altro distretto, con l’idea di fare una matita e tornasse a casa con la matita pronta perché ha trovato tutto ciò che gli serviva: il prototipo, il layout di produzione, i contatti con i fornitori, eccetera. In un unico luogo. So che è un sogno…”.
Un sogno che potrebbe divenire realtà visto che qualcuno ve lo chiede, no?
“Assolutamente sì. Il problema è che non siamo ancora in grado di dare una risposta univoca”.
Cosa vi servirebbe per essere in grado di dare questa risposta?
“Racconto la mia storia: ho fatto il perito in un istituto tecnico tra il 1970 e il 1975. I miei professori erano tecnici che, durante il pomeriggio, lavoravano in impresa e al mattino si dedicavano all’insegnamento. Questo tipo di professori non fornivano solo le informazioni utili alla conoscenza, ti trasmetteranno la cultura dell’impresa. Arrivato il momento di uscire da scuola, erano gli stessi insegnanti che ti offrivano la possibilità di andare a lavorare all’interno delle imprese. Ecco, questo meccanismo, che era fatto anche di imprese grosse come Eni, Snam Progetti, o altri grandi gruppi, era una vera e propria palestra dove potevi imparare, formarti e crescere. Oggi le imprese del nostro territorio hanno bisogno di persone già formate. Ma per formare le persone ci vuole il formatore, ed è già è un’impresa trovarlo; in secondo luogo, ci vogliono ragazzi convinti che costruire macchine, viaggiare per il mondo non è poi così disdicevole. La domanda è “ma questi ragazzi lo sanno?” Risposta: no, nessuno glielo ha mai detto. Manca totalmente l’informazione, perciò queste figure professionali non ci sono. Mancano i formatori, quelli che abbiamo non sono realmente aggiornati e, terzo, non abbiamo un percorso formativo unificato in tutta Italia”.
Nonostante ci stiate lavorando da anni, come mai non si arriva a un dunque?
“Secondo me, i problemi sono innanzitutto di tipo organizzativo perché ogni attore è convinto di saper fare la scuola migliore del mondo a casa propria. La nostra Associazione sta già interloquendo con gli ITS con lo scopo di organizzare un percorso formativo condiviso ma al momento è tutto molto nebuloso. Anche qui vorrei fare un esempio: durante il mio incarico ho fatto numerosissimi corsi di formazione in giro per il mondo sul processo conciario, dall’Indonesia al Sud America. In Italia solo due”.
Davvero?
“Sì, ce lo hanno chiesto solamente in due. Perché nel mondo sono così richiesti mentre in Italia non c’è interesse? Continuo a pormi questo interrogativo e non sono ancora riuscito a trovare una risposta. Questo è il primo aspetto. Il secondo è la presenza di tanti Istituti diversi che viaggiano su binari totalmente indipendenti, impedendo di fatto di creare una proposta formativa che abbia senso. Ci sono moltissimi stranieri che esprimono la volontà di venire a studiare in Italia, ma l’unica scuola accreditata e riconosciuta al mondo è a Northampton, in Inghilterra. A Northampton, dove, se tutto va bene, ci sono cinque concerie, puoi prendere una laurea. Qui non è ancora possibile, è inconcepibile”.
Interviene Agostino Apolito: “Gli sforzi che fanno gli imprenditori per riuscire a far passare il concetto di una formazione tecnica secondaria qualificata viene vanificato dalla difficoltà che si ha nell’individuare gli interlocutori che possono mettere in piedi, per legge, attività formative riconosciute. Per la prima volta, da dieci anni a questa parte, noi abbiamo raggiunto un 5° livello EQF: si chiamano in questo modo i livelli di qualifica funzionale che l’Unione Europea ha da vent’anni. Noi avevamo il 4°, che era la Scuola Superiore, e partivamo dal 7° con l’Università. Abbiamo un bug oggettivo. In Germania, con il sistema duale, sono vent’anni avanti a noi. Noi, con uno sforzo enorme, riusciamo a portare a casa circa 12/15mila studenti mentre in Germania ne contano 250mila. È chiaro allora che la prima cosa da fare sia creare una governance in grado di dare una reale risposta al problema”.
Prende la parola Maria Vittoria Brustia: “Il problema ha radici profonde perché sono le famiglie stesse che non indirizzano i ragazzi verso professioni inerenti al nostro settore. Assolombarda ha fatto tentativi meritevoli nel vigevanese ma la risposta è stata veramente ridicola rispetto alla potenzialità di occupazione che c’è. Prima di indirizzare i ragazzi verso uno studio piuttosto che l’altro sarebbe bene guardare a quelle che sono le necessità del mondo del lavoro. Se poi un ragazzo ha talento per fare il poeta è giusto che prosegua nel suo percorso ma, oggi come oggi, è altrettanto importante valutare scuole che possano dare sbocchi concreti ai giovani e offrire un’occupazione stabile”.
Riprende la parola Roberto Vago: “Di fatto è lo stesso problema: da una parte ci sentiamo dire dai nostri associati che non trovano specialisti all’interno del settore, dall’altra noi non troviamo le interfacce giuste con cui interloquire. Capiamo che essere semplici produttori di una macchina ed essere fornitori di un sistema integrato sono due modelli molto molto diversi ma, se le aziende hanno la necessità di crescere in termini di figure professionali specializzate, quindi programmatori, ingegneri o progettisti, il nostro cliente di riferimento / brand deve essere sicuro che queste figure siano in grado di dialogare con chi produce le macchine altrimenti, di fatto, la comunicazione si interrompe anche lì. Posso fare la macchina più bella del mondo ma se dall’altra parte non c’è la persona che capisce come utilizzarla è tutto inutile”.
Industria 4.0. A che punto siamo?
“Non siamo né indietro, né in avanti. Siamo a un punto fermo. Le nostre imprese hanno fatto tutto ciò che era possibile, ora dobbiamo salire di un gradino e per farlo abbiamo bisogno sostanzialmente di due cose: quello che vi dicevo prima, cioè di creare una piattaforma di dialogo tra macchine; dall’altra parte, abbiamo bisogno di tecnici qualificati perché, in tutto questo grande concept, che è poi è quello che diceva il nostro Carlo Alberto Carnevale Maffè durante l’assemblea, si va verso il mondo della servitizzazione, ossia il passaggio dalla vendita di un prodotto alla fornitura di servizi con l’obiettivo di creare maggior valore per il cliente”.
Agostino Apolito: “Riducendo ai minimi termini, l’aspetto importante è la finalizzazione, ovvero la vendita. Porto ad esempio una grande azienda multinazionale produttrice di turbine per piattaforme offshore, gasdotti e metanodotti, che ha dovuto trasformare completamente il suo modello di business. Per movimentare i flussi ha definito un modello di vendita dove non è la turbina il fulcro ma il servizio. E nel servizio c’è tutta una tecnologia predittiva, di analisi, di gestione del dato che consente all’azienda di accompagnare il cliente, non solo da un punto di vista utilizzo del bene (perché non è un bene di proprietà del cliente) ma anche nell’ottimizzazione della lettura dei dati che l’utilizzo di questo macchinario offre anche da remoto, per esempio utilizzando la realtà virtuale. In caso di necessità, infatti, non è più necessario lo stesso numero di ingegneri e tecnici presenti in loco perché c’è un team collegato in remoto che analizza i dati in tempo reale e comunica le operazioni da fare. Guardando al futuro, questa sarà l’evoluzione del nostro comparto: la capacità di lettura dei dati, secondo me, è il punto focale. Ed è un aspetto dissonante avere un governo che sostiene Il percorso della formazione 4.0 ma ha sostenuto meno l’industria 4.0 che rappresenta il vero rilancio di un modello competitivo internazionale. Prima Roberto ne parlava: la competitività internazionale per noi è data dalla capacità di un governo di offrire alle proprie aziende la possibilità di essere competitive, non solo con un sistema paese ma anche con un sistema tecnologico all’avanguardia. Secondo la mia opinione, noi l’abbiamo persa questa sfida, nonostante il grande impegno delle imprese”.
Non si può parlare dunque di sostegno reale da parte del Governo alle aziende?
Roberto Vago: “Ho da poco partecipato a un incontro con i vertici e ne abbiamo nuovamente parlato. E di certo ne riparleremo ancora… Siamo ancora di nuovo da capo: il problema è l’interlocutore. E con tutto il rispetto, non ne voglio fare una questione di colore politico, ma c’è una obbiettiva difficoltà a tradurre in azioni concrete ciò che noi Associazioni e industriali stiamo a lungo dicendo”.
Quale sarebbe il passo successivo per rendere più veloce l’industrializzazione 4.0?
“È fondamentale mettere a punto i criteri di eleggibilità del credito. Sia che si chiami Industria 4.0, sia che la si chiami riconversione ecologica, facciamo chiarezza e creiamo delle regole precise in modo da permettere alle imprese di rivolgersi agli Istituti di Credito con facilità. Credo che la Presidente non abbia più voce per quante volte lo abbia ribadito: noi abbiamo un modello, quello della Targa Verde, che è un ottimo indicatore di sostenibilità. Può piacere o non piacere, può essere perfettibile, come tutte le cose. Siamo gli unici al mondo ad averlo fatto e, visto che non esiste un altro modello valido al momento, perché non utilizzarlo? Accadrà come a Roma che ha lanciato un bando pubblico per gli autobus elettrici al quale hanno risposto solo aziende cinesi perché sono le uniche in grado di rispettare le specifiche. Il risultato è soldi europei che vengono spesi in Cina. Questo è un altro concetto che abbiamo espresso nelle assemblee e negli incontri a cui abbiamo partecipato: spendiamo lungo la nostra filiera. Sei un cliente italiano? Produci in Italia? Ora semplifico: spendi i tuoi soldi con fornitori italiani. Nel caso in cui non trovassi la macchina che ti serve in Italia allargati al bacino europeo. Se non la trovi nemmeno in Europa allora allargati a livello internazionale ma non farlo sin dal principio altrimenti che senso ha. E qui ci ricolleghiamo a un discorso fondamentale che è quello del reshoring. In questo momento noi siamo dell’idea, in linea generale, che sia possibile muovere il processo più che il prodotto. Se poi il reshoring avvenga in Italia, a Vigevano, piuttosto che a Porto, in Portogallo, non credo che per noi sia un grosso problema. Il tema è favorirmi in modo da avere la convenienza a riportare a casa le produzioni”.
Il 2023 sarà un anno cruciale, quali sono le attività che avete pianificato?
Maria Vittoria Brustia: “A gennaio formuleremo il programma per il prossimo biennio. Ovviamente riprenderemo i temi già trattati nel precedente biennio, quindi il tema della comunicazione, il tema dei rapporti con i brand e il tema del tecnologico del protocollo di comunicazione tra le macchine. I filoni saranno due: uno rivolto verso l’interno, quindi tecnologico e di crescita anche manageriale delle nostre aziende e dei nostri imprenditori attraverso anche l’ampliamento dei corsi con la Bocconi; il secondo verso l’esterno, con l’obbiettivo di far conoscere ancora di più quanto siamo bravi, quanto siamo tecnologici, digitali, riciclabili e sostenibili, al fine di spingere l’attenzione internazionale verso la tecnologia italiana degli associati Assomac che è la migliore”.
Roberto Vago: “Uno dei progetti che speriamo di completare, in collaborazione con i produttori di macchine tessili è l’indice di riciclabilità dei nostri macchinari, ovvero quanto una macchina possa essere recuperata a fine vita e, quindi, quanta componentistica possa avere una seconda vita ed essere riutilizzata. Il bilancio di sostenibilità del processo produttivo è un altro tema importantissimo. Ogni calzaturificio dovrà spiegare come va a gestire tutto il suo sistema, dall’energia al recupero dei prodotti di scarto, al riutilizzo/ riconversione delle macchine stesse. Questo deve valere per tutti i settori perché dobbiamo far capire che in noi trovano un tramite, un sostegno per dimostrare che il loro processo produttivo è sostenibile, non solamente dal punto di vista del prodotto perché è un prodotto compliance con le regole europee ma anche il processo con cui viene fatto lo è. Per i consumatori è diventato imprescindibile, dobbiamo lavorare tutti insieme in questa direzione”.

www.assomac.it

Maria Vittoria Brustia e Roberto Vago Assomac

Maria Vittoria Brustia e Roberto Vago

Agostino Apolito