Stile e comfort nelle sneakers di Ho’op

È il 2021 quando Emanuele Formentini e Riccardo Chiacchiera, due giovani esperti del settore calzaturiero, decidono di unire le reciproche forze ed esperienze nel design e nella produzione di calzature per la creazione di Ho’op, un nuovo marchio dalla visione moderna e inclusiva. Ho’op è specializzato nella produzione di sneakers, e utilizza solo pellami e materiali di alta qualità. I due titolari ci raccontano il viaggio che li ha portati all’affermazione del loro marchio.
Parliamo del progetto Ho’op. Un nome piuttosto esotico.
“Proprio così, il termine Ho’oponopono è uno slang hawaiano che non ha un significato ben preciso, con cui si intende “mettersi in moto, darsi da fare”, una sorta di mantra: un invito all’azione e insieme un auspicio.
Il progetto è nato durante la pandemia e il nostro voleva essere un messaggio di speranza. Usciti poi da quel terribile periodo, il messaggio è risultato comunque efficace e attuale: in una società come la nostra, in continua evoluzione, Ho’op significa anche uscire dalla propria comfort zone e prendersi qualche rischio. Che è proprio quello che abbiamo fatto noi, creando questo marchio”.
Voi due siete parti integrante del progetto stesso, e con voi il vostro personalissimo bagaglio di competenze. Raccontateci a grandi linee la vostra carriera prima di Ho’op.
Emanuele: “Dodici anni fa facevo il pizzaiolo. Poi è arrivata un’opportunità che ha cambiato tutto. Tod’s, un noto marchio di moda, ha lanciato un progetto di sviluppo e mi ha assunto. Con l’aiuto e la supervisione di un tutor esperto, ho iniziato a imparare l’arte della modelleria. È stato un periodo di crescita intensa e di apprendimento, durante il quale ho acquisito moltissime nuove competenze e sviluppato la passione per le calzature che ancora adesso mi anima. Dopo tre anni da Tod’s, sono entrato in una nota realtà calzaturiera del territorio. Lì ho avuto l’opportunità di confrontarmi quotidianamente con alcuni dei più grandi marchi di Moda del mondo, tra cui Moncler, Valentino e il gruppo Staff International; esperienza che mi ha permesso di affinare ulteriormente le mie competenze e di comprendere meglio l’industria della moda. Poi, quasi per caso, giocando a calcio, ho conosciuto Riccardo…”
Riccardo: “Ho iniziato la carriera nel mondo della moda subito dopo le superiori, formandomi come modellista e tecnico della calzatura. Ho lavorato in varie aziende, ricoprendo diversi ruoli. Ho rifiutato opportunità in grandi aziende (NeroGiardini, ad esempio) per poter lavorare in fabbriche più piccole, in cui avevo l’opportunità di acquisire la conoscenza completa del settore calzaturiero, sotto ogni aspetto. Dopo un periodo di frequenti cambi di posto di lavoro, durante il quale ho avuto l’opportunità di interfacciarmi con rinomati brand di alta gamma, tra cui Philip Plein, mi sono stabilito a Monte San Giusto, lavoravo presso uno studio di progettazione che collabora con i marchi dell’alta Moda. Per caso ho iniziato a collaborare con la stessa azienda per cui lavorava Emanuele, dove realizzavo i modelli. Avevamo contatti telefonici regolari, Emanuele ed io, ci siamo incontrati professionalmente così, anche se, come ha detto lui, ci eravamo conosciuti già sui campi di calcio”.
Come è nata l’idea del marchio Ho’op?
Riccardo: “Venivamo entrambi da un passato frustrante, perché ci sentivamo più autonomi rispetto ai compiti che le rispettive aziende ci assegnavano, e sentivamo di voler creare qualcosa di nostro, in cui finalmente poter esprimere fino in fondo la nostra creatività: un nostro marchio. Crediamo che ogni individuo sia dotato di competenze uniche nelle quali spesso eccelle; riconoscendo e valorizzando queste abilità e fornendo lo spazio per esprimersi liberamente, ciascuno può apportare un contributo significativo all’intero processo produttivo. Basiamo su questo principio la nostra attività”.
Emanuele: “Eravamo una nave pronta a partire. L’esperienza di lavoro con marchi importanti ti dà una competenza notevole, e ti insegna a identificare e correggere eventuali errori, creando le basi per un nuovo inizio. Il nostro obiettivo era produrre una sneaker che trascendesse il ruolo di semplice accessorio di moda. Volevamo che fosse un emblema, un simbolo, che trasmettesse un messaggio potente attraverso design accattivante e comfort”.
Come sviluppate i vostri modelli?
Riccardo: “Il processo inizia con un’analisi approfondita del prodotto e del materiale. Segue la fase di ricerca e sviluppo, che culmina nella progettazione completa del prodotto. Questo processo iniziale avviene interamente nei nostri laboratori, poi lo esternalizziamo a vari terziari presenti nella nostra zona, le Marche, la cui vocazione calzaturiera è rinomata in tutto il mondo. Tutti i nostri campioni vengono realizzati in Italia, compresi i progetti di base e le materie per fabbricarli. Successivamente, per la produzione, ci affidiamo a terziari all’estero, utilizzando manodopera straniera per ragioni commerciali e di costo. Il risultato? La nostra collezione Rewind ad esempio, un vero e proprio fuoco d’artificio di colori, ideale per chi desidera distinguersi dalla massa e infondere un’ondata di energia vibrante alle proprie giornate, perfettamente in linea con il nostro payoff “Get in the loop”: entra nel giro con sneakers di altissima qualità”.
Qualità testimoniata recentemente da un prestigioso traguardo. La vostra partecipazione al Pitti Immagine Uomo.
Emanuele: “L’esperienza al Pitti è stata molto gratificante. Era tra le fiere che avevamo identificato come prioritarie. Abbiamo presentato la candidatura con moderata aspettativa, considerando che l’anno prima non eravamo stati selezionati, invece questa volta siamo stati invitati a partecipare perché i nostri progressi sono stati riconosciuti. Evidentemente si è tenuto conto dei nostri nuovi lanci di prodotti e degli investimenti fatti in marketing e ads, che hanno dimostrato il nostro impegno complessivo ed effettivo verso la crescita.
Riccardo: Essere selezionati per partecipare a una fiera di tale prestigio, forse la più importante d’Italia, è stato un grande onore, ed essere presenti ha anche influenzato la percezione degli agenti e di altre figure professionali nei nostri confronti, che hanno iniziato a considerarci sotto una luce diversa. Dei veri e propri player”.

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