La crucialità della dimensione territoriale
Recenti ricerche dimostrano come la manifattura delle scarpe abbia origini molto antiche. Addirittura Boccaccio, il noto autore rinascimentale del “Decamerone”, nella quinta novella dell’ottava giornata, ricorda che le scarpe italiane, prodotte dagli artigiani di Montegranaro e Sant’Elpidio a Mare, erano così belle e pregiate da essere esportate non solo in Toscana, ma anche nei Paesi Balcanici. Lo sviluppo di questo fenomeno fu talmente veloce che nel XV secolo a Sant’Elpidio a Mare furono create diverse botteghe artigiane che formarono le Arti dei Calzolai, ma sembra che, solo agli inizi dell’Ottocento, si istituì un vero e proprio distretto calzaturiero che comprendeva poi i comuni di Sant’Elpidio Elpidio a Mare, Montegranaro, Monte Urano e Monte San Giusto, dove si producevano pantofole di stoffa o di pelle che poi venivano esportate nei Regni limitrofi. Con l’avvento delle prime macchine da cucire la produzione aumentò così tanto da far nascere l’esigenza di coinvolgere maestranze e lavoratori anche dai comuni vicini.
Gran parte della ricerca e della teorizzazione dei primi distretti industriali si è concentrata su tipologie di produzione nelle quali la maggior parte degli input e delle imprese di una determinata industria si concentrava in una regione specifica. Oggi, l’idea di distretto è abbastanza diffusa nell’economia industriale moderna e la regione Marche ne rappresenta un esempio impareggiabile per qualità ed eccellenza, divenuto anche modello di studio in tutto il mondo.
Oggigiorno i distretti costituiscono uno degli assi portanti della struttura industriale italiana e, nell’ultimo trentennio del secolo scorso, hanno sostenuto la crescita dell’intera economia nazionale. Negli anni più recenti, tuttavia, nei distretti, come in tutta l’industria italiana, sono in atto significative trasformazioni, che coinvolgono i rapporti tra le imprese, la differenziazione delle loro strategie, l’equilibrio tra radicamento locale e apertura internazionale. Piuttosto che un sistema statico di aziende e tecnologie “bloccate”, nel tempo, i singoli partecipanti alla “simbiosi” del distretto industriale stanno mutando in modo significativo e l’ecosistema nel suo insieme si è adattato alla crescente pressione competitiva globale. Prima del 2004 il modello di distretto industriale non era ufficialmente riconosciuto oltre il livello accademico mentre oggi il suo assetto istituzionale viene descritto a tutti gli effetti come attivo nel supporto dell’intero sistema produttivo e sociale e nell’offerta di servizi reali. Tutte le imprese facenti parti di questo tessuto, con il trascorrere del tempo, infatti hanno scambiato conoscenze e competenze con altre imprese dello stesso settore e imprese nelle loro immediate vicinanze, consentendo in tal modo diverse complementarità, che sono le caratteristiche principali che ne hanno determinato il successo mondiale.
Ad oggi si contano più di 2.900 imprese attive nel distretto calzaturiero marchigiano con quasi 20.000 addetti che operano al loro interno, numero importante ma non sufficiente a soddisfare la sempre più alta richiesta di manodopera qualificata o, addirittura, di personale da formare. Questa mancanza rappresenta uno dei problemi più grandi che l’intero distretto, al fianco delle parti politiche, stanno affrontando e cercando di risolvere mettendo in campo differenti iniziative come la creazione di scuole ed istituti professionali localizzati al suo interno. Solo da dicembre 2020 a settembre 2021 è stato registrato un calo del 4,3%, ovvero circa 1.000 unità in meno rispetto all’anno precedente.
Ad aggravare una situazione già di per sé preoccupante va aggiunta anche la crisi dei commerci mondiali causata anche alla guerra che provoca, oltre al blocco totale di tante attività il cui commercio si svolgeva prevalentemente negli stati coinvolti, una carenza di materie prime e il conseguente aumento stratosferico dei prezzi. Dunque, oltre all’import, anche l’export è in forte sofferenza. Vero è che nel 2021 avevamo assistito ad una significativa ripresa – +9,7% (in milioni di euro rispetto al 2020) – ma siamo ben lontani dai numeri pre-Covid, il cui raffronto segna un -20,2% totale dell’export delle aziende marchigiane. Da sottolineare che nel 2021 il tot. Export Italia valore (calzature+parti) ha registrato un +17,0% rispetto al 2020 e un -1,5% sul 2019. Quarta regione italiana per fatturato export calzature+parti, dopo Veneto, Toscana e Lombardia, le Marche rappresentano il 9,8% sul totale Export Italia 2021 (in valore) che era pari al 10,4% nel 2020. Valori non indifferenti se valutati nel loro complesso. Germania, Francia, Stati Uniti, Belgio, Spagna, Polonia, Regno Unito, Russia e Cina erano i principali paesi di destinazione delle esportazioni delle Marche nel 2021 (in ordine di importanza). Presumibilmente, alla fine di quest’anno lo scenario sarà molto diverso. Non sappiamo quando le cose miglioreranno, molte stime citano il 2023 come l’anno in cui si potrebbe tornare a una pseudo normalità, sempre che la crisi politica con la Russia non peggiori.
Il sistema che sta alla base del commercio e dell’economia mondiale, ovvero la “supply chain”, quello della catena dell’approvvigionamento, che fino a un paio di anni fa, si è sempre dimostrato efficiente e capace di rispondere alle esigenze del mercato globale, ora è in grande affanno. Come se non bastasse, l’attuale crisi è il risultato di una serie di altre crisi interne che, messe assieme e grandi catastrofi naturali che si sono abbattute sul nostro paese nell’ultimo decennio, peggiora il quadro generale delle cose.
Materie prime difficili da reperire, aumento dei costi che si ripercuote sui costi di produzione dei prodotti finiti e crisi energetica hanno portato a un rallentamento o addirittura all’interruzione della produzione di molti settori produttivi. Anche in questo caso, per le fabbriche che non hanno chiuso i costi sono comunque aumentati in maniera esponenziale.
Tanti i tavoli di crisi aperti dal Ministero dello Sviluppo Economico che hanno portato lo scorso maggio alla stesura di un nuovo Decreto Aiuti per le imprese, misure per assicurare liquidità alle imprese colpite dalla crisi ucraina, per fronteggiare il rincaro delle materie e per assicurare produttività e attrazione degli investimenti. Il decreto aiuti ed energia contiene una serie di agevolazioni a favore delle imprese con elevati consumi di gas, come quelle che producono suole. È stato, per quest’ultime, innalzato il tax credit dal 20 al 25% e viene elevata allo stesso livello anche l’agevolazione prevista per tutte le altre imprese non gasivore, ma comunque caratterizzate da incidenza di oneri significativa su tali approvvigionamenti. Inoltre è stato innalzato dal 12% al 15% anche il credito d’imposta relativo alle imprese dotate di contatori di energia elettrica di potenza disponibile pari o superiore a 16,5 kilowatt, diverse dagli energivori e previsto anche un fondo da circa 200 milioni di euro che erogherà aiuti a fondo perduto alle aziende con forti interscambi con le aree coinvolte nella guerra (Russia, Ucraina e Bielorussia). Per favorire l’attrazione di investimenti esteri e la rilocalizzazione delle imprese, in Italia e in Europa, sono stati stanziati 5 milioni di euro all’anno e, per facilitare lo svolgimento delle mai semplici pratiche burocratiche, verranno predisposti sportelli unici che accompagnino e supportino gli investitori in tutti gli adempimenti e le pratiche utili alla concreta realizzazione degli investimenti. Infine, per continuare a promuovere lo sviluppo dell’Industria 4.0 è stato previsto un incremento del credito d’imposta per i beni strumentali immateriali 4.0: nello specifico l’aliquota sale dal 20 al 50% fino al 31 dicembre 2022 o 30 giugno 2023 se è stato effettuato un pagamento in acconto pari almeno al 20% del valore dei beni.
Nel frattempo che tutte questi interventi possano realmente dare una boccata d’ossigeno alle nostre aziende, la parola d’ordine è resilienza. Da una ricerca di Deloitte Private, quelle che possono essere definitive “a elevata resilienza” in Italia sono quasi una azienda su tre (31%) perché, si sa, salvaguardare le proprie organizzazioni, persone e asset aziendali, rappresenta non solo una grande responsabilità ma la sfida più grande.